Cos’hanno in comune un album di figurine Panini, una cassetta degli attrezzi e un scatola di latta di devastanti biscotti danesi 100% burro?
Contengono mondi, mondi in ordine.
Magari si tratta di un ordine parziale (qualcuno ha mai davvero completato un intero album dei calciatori?), provvisorio (i biscotti danesi assortiti hanno notoriamente vita breve, di solito avanzano solo quelli con la marmellata rinsecchita al centro) o del tutto irrilevante (riporre in ordine decrescente le punte del trapano non vi aiuterà̀ in alcun modo a capire come servirvene), eppure la sola promessa di un ordine basta a rendere quegli insiemi interessanti.
La classificazione per l’uomo è un gesto immortale, una necessità spontanea; elenchi, classifiche, liste, cataloghi, campionari esistono più o meno da sempre, e a scomporre la realtà in categorie ci aveva già pensato Aristotele 2300 anni fa.
Se in italiano non esiste un termine univoco per definire gli insiemi ordinati, gli inglesi ci vanno vicini con “poset”, Partially Ordered Set, che nel linguaggio matematico indica i “vari elementi di un insieme uniti fra loro da una relazione d’ordine”.
L’era della riproducibilità tecnica e la cultura pop hanno reso i poset star della modernità (per non nominare il solito Warhol basta pensare alle campagne Absolut negli anni’90 o alle monografie della Taschen su culi, tette e pittori famosi); l’era di internet (e quindi l’era di un massiccio e incontrollato accesso ai dati) li ha resi indispensabili: cose come Wikipedia, la mania per l’infografica e Pinterest non sono che tentativi di mettere ordine nel casino del web, e i loro effetti sulla rete sono stati simili a quelli di Kant sull’epistemologia.
Da qualche anno, complici lo svilimento sintattico del popolo del web, la fretta e l’intorpidimento intellettivo del lettore medio, i poset sono diventati un’ossessione, e non passa giorno senza che qualcuno ci propini una rubrica di Do & Dont’s, l’ennesima serie di “100 foto allo specchio di un giovane e promettente fotografo nella stessa identica posa, una al giorno per 100 giorni, con la barba o senza”, un’altra classifica dei 50 Best Album Ever secondo più o meno chiunque, l’ultimo reloaded del questionario di Proust (sempre secondo più o meno chiunque), i 200 posti che non potete aver visto senza crepare e crepare senza aver visto, e così via.
Risultato: i poset sono ovunque, presumono verità, vengono eletti e si auto eleggono come modi “cool” di stare al mondo, e noi non ne possiamo più.
Eppure – isolando per un attimo l’inevitabile e sacrosanta nausea da classificazioni scadenti – è cosa buona e giusta, arrivati a questo punto, chiedersi: come spiegare questo eterno bisogno di insiemi ordinati?
Perché un paio d’anni fa abbiamo provato ebete gratitudine per il tumblr thingsorganizedneatly? Perché ci sentiamo bene (o comunque discretamente meglio) sfogliando il Codex Seraphinianus o un catalogo Pantone? Perché facciamo una certa fatica persino a liberarci di quell’umida pila di Settimane Enigmistiche sopra alla lavatrice e perché un giorno di qualche tempo fa, verso la fine di un pomeriggio qualunque, senza nessun preavviso e alcuna ragione apparente, ci siamo ritrovati in fila da Ricordi (in loving memory) con in mano Tutto Kubrik Remastered Edition anche se il Dottor Stranamore ce l’avevamo in cassetta, Barry Lindon lo avevamo già comprato in offerta a 9,90 e 2001 ce l’eravamo rivisti da poco in streaming?

(Vi sento, là in fondo. No, non è per la qualità del video che avete sborsato 69,99 € per il Remastered. Guardatevi dentro, e siate onesti. É per poterli avere lì, tutti insieme, belli ordinati, e sfilarli dal cofanetto con la fettuccia di raso. Essù.)
Quando gli chiesero di spiegare perché si fosse lanciato nella folle, sterminata e maniaco ossessiva impresa dell’Enciplopedia, Diderot (se andate a leggervi l’appassionante storia dell’Enciclopedie scoprirete che il vero direttore creativo del progetto era lui, D’Alambert a conti fatti era solo una specie di copy assunto a progetto) rispose:
Lo scopo è di riunire le conoscenze sparse sulla faccia della terra; di esporne agli uomini insieme ai quali viviamo il sistema generale, di trasmetterlo a coloro che arriveranno dopo di noi, affinché l’opera dei secoli passati non sia stata inutile per i secoli a venire, affinché i nostri nipoti, diventando più istruiti, diventino allo stesso tempo più virtuosi e più felici.
Tradotto: le classificazioni sono indispensabili all’uomo perché gli permettono di tramandare il sapere (e quindi, di riflesso, di imparare). Risposta logica, ma sbagliata. Corretta, ma riduttiva.
Se da millenni l’uomo investe denaro, tempo ed energie nel finanziare, consultare, stilare liste di mondi parzialmente ordinati lo fa per almeno altre 3 ragioni:
1. I poset semplificano il complesso, regalandoci così l’illusione di vedere il mondo con maggiore chiarezza, di stringere – anche solo per un attimo – il senso delle cose.
Un qualsiasi inventario ha più o meno gli stessi poteri (e scopi) della matematica e della religione, e le classificazioni sono rassicuranti, per qualunque QI. (A pensarci, l’idea di spiegarci come stare al mondo in dieci e concisi comandamenti è eminentemente moderna.)
2. I poset complicano il semplice, dando voce e potere a tutte le nostre contraddizioni (e regalandoci la facoltà di assolvere le nostre nevrosi irrisolte). “Sono vasto. Contengo moltitudini.” scriveva Walt Whitman (sommo esperto di elenchi poetici). Gli insiemi ordinati non sono che modi diversi di raccogliere mondo, e di riassumerlo dandogli una forma. Più che altro, visto che non sempre si riesce nello scopo, rappresentano soprattutto il commovente “tentativo di”. Non ci regalano quasi mai soluzioni, ma ci mostrano (non senza una certa eleganza) che siamo tutti lì a farci le stesse domande. In questo assomigliano alla letteratura: acuendo le nostre capacità percettive e raccontando il mondo nella sua indicibilità, i poset generano poesia.
E’ grazie agli elenchi che Rabelais ha costruito un’epica leggendaria, Perec si è trovato un lavoro e Woody Allen ha potuto filmare il trionfo poetico dell’egoriferito (Manhattan, le intramontabili “Cose per cui vale la pena vivere” secondo Isaac David sdraiato sul divano…).
3. Infine, i poset ci distraggono, impedendoci di pensare. L’enumerazione, la scomposizione e la catalogazione tengono occupata la mente, allontanandola dal magma dell’inclassificabile, dall’abisso o, più semplicemente, dalla noia del mondo così come lo conosciamo. Non a caso, quando Esquire gli chiese di raccontare il suo crollo psico fisico, Francis Scott Fitzgerald lo descrisse con queste parole: Approfittavo di ogni pretesto per dormire o sonnecchiare, a volte per venti ore al giorno e, negli intervalli, mi mettevo d’impegno a non pensare – compilavo invece elenchi – compilavo elenchi a centinaia: comandanti di cavalleria, giocatori di football e città, motivetti popolari e lanciatori di baseball, momenti felici, passatempi, case dove avevo abitato e quanti vestiti avessi avuto dopo il congedo militare e quante paia di scarpe (…) Ed elenchi di donne che mi erano piaciute, e di tutte le volte che mi ero lasciato bistrattare da qualcuno non certo migliore di me né per carattere né per doti.”
Non che gli sia servito a molto, ma l’intuizione era giusta. Insomma, compilare liste è l’alternativa radical chic al sudoku.
I poset sono generatori di ansie e dispensatori di endorfine, liberatorie forme compiute e intossicanti insiemi provvisori. Adesso non vorremmo davvero sentirne parlare per un po’, e abbiamo tutte le ragioni, ma a loro torneremo, per divertirci, scongiurare l’abisso e per tutte le altre ragioni appena elencate.
Nell’immediato, però, è giunto il momento di chiudere un ciclo, e quindi tanto vale chiudere in bellezza e dedicare un requiem ai poset di qualità.
Pochi lo sanno, ma il paradiso degli insiemi ordinati italiani si trova in Emilia Romagna, al margine di una strada provinciale. Non è il genere di posto in cui si finisce per caso, perché il museo Guatelli è in aperta campagna e da fuori ha tutta l’aria di quello che poi è, un modesto podere rurale. Non si può nemmeno dire che ospiti davvero la collezione di qualcosa, tanto che qualcuno l’ha ribattezzato il “Museo dell’ovvio”.
Quello che rende unico questo posto è proprio essere stato costruito in tempi non sospetti, in una geografia spazio-temporale di disarmante innocenza: non siamo in una galleria di Berlino, e non c’è traccia dell’avidità del collezionista, il disordine dell’accattone, la spocchia dell’artista contemporaneo.
Ci sono solo cose, disposte in ordine, in ogni dove, da un maestro delle elementari in una fattoria di Ozzano Taro.
Questa “Divina Commedia degli oggetti” (copyright Giorgio Soavi) è l’impresa di un uomo qualunque, Ettore Guatelli, che in quella casa ci è nato e cresciuto, soggiorni in ospedale esclusi.
La prima cosa che ha messo da parte (per “collezionare” gli elementi devono essere almeno due) è stata un pezzettino di pirite, una pietra poco preziosa e molto luccicante, una pepita dorata alla zio Paperone. Era il 1927, Guatelli aveva sei anni. Fino al 2000, anno della sua morte, Guatelli ha continuato a catalogare mondi e li ha disposti in ordine sulle pareti di casa. (Nel caso in cui ve lo stiate chiedendo: no, i suoi non erano troppo contenti.)
Scarpe. Scatole. Pinze e tenaglie. Grattugie e orologi. Oggetti comuni, che la classificazione – e il tempo – hanno reso interessanti. Oggi sono circa 80000, assemblati in un risultato che è un incontro fra un museo e un rigattiere e, in definitiva, il contrario dei cabinets de curiosites rinascimentale. Se c’è qualche rarità, si tratta di una rarità ordinaria, assolutamente trascurabile. Una sveglia asimmetrica, un incisore per ostie, uno sbuccia pannocchie.
Nel suo libro dedicato ai poset (Vertigine della lista, Bompiani, 2009), Umberto Eco sottolinea l’essenziale distinzione che separa una lista pratica (l’elenco del telefono) da una lista poetica (il catalogo delle navi dell’Iliade). Il museo Guatelli si trova esattamente a metà strada fra questi due insiemi. È il luogo in cui il quotidiano incontra l’immanente, e l’espressione lirica diventa legno, latta, cartone.
Da lì sono passati Werner Herzog, Boltanski, Federico Zeri e anche un paio di premi Nobel. Ogni tanto, mi ha detto Giuseppe, il custode, sbuca anche qualche “ragassetto straniero”.
Eppure oggi il museo Guatelli non lo conosce quasi nessuno, e d’inverno chiude i battenti perché mancano i fondi per il riscaldamento. Io, quasi a voler inconsciamente partecipare alla collezione, al Guatelli ci ho lasciato il quaderno degli appunti. L’ho dimenticato all’ingresso, fra i depliants e i libretti autoprodotti in vendita dell’entrata, e me ne sono accorta solo quando ero già a Milano, perché nel viaggio di ritorno sono stata troppo occupata a chiedermi cosa diavolo mi avesse spinto fin lì a gelarmi i piedi (era già inverno, e i termosifoni li avevano staccati).
Un impellente bisogno di essere istruita, rassicurata, assolta e distratta, probabilmente.
Eleonora Marangoni
ele@eleonoramarangoni.com