In questi giorni termina una delle mostre d’arte più discusse dell’anno: David Hockney al Tate Britain di Londra (fino al 29 Maggio). E mentre immagino mani sapienti che impacchettano e spediscono oltre la Manica (dal 21 giugno la mostra sarà a Parigi) i piccoli disegni a matita, le grandi tele, schermi di iPad, i collage di Polaroid… Mi documento ancora un po’ sull’eclettico artista britannico. Ammetto che non ero preparatissima prima della visita alla mostra, ma questo mi ha consentito di rimanere sorpresa, come credo la maggior parte dei visitatori, dalla incredibile indagine che l’artista ha operato nei confronti dell’immagine; indagine che viene elaborata e comunicata nell’arco di molti decenni in forme e con mezzi svariati.
La retrospettiva alla Tate è stata attesa con trepidazione e l’affluenza è stata enorme. I famosi quadri che rappresentano piscine azzurre e scene di una Los Angeles perduta dai colori pastello, dalla luce accecante che trasmette gioia di vivere, spensieratezza e libera sessualità (e omosessualità) hanno attirato come un’esca, permettendo di scoprire, dopo qualche sala, un’artista che ha costruito un’estetica molto precisa, per la quale è conosciuto e riconosciuto, ma che non si conclude con le note tele degli anni Settanta. Si sviluppa al contrario in un’incessante ricerca e riflessione sul concetto dell’immagine e della rappresentazione che lo ha portato ad esprimersi nei modi più disparati sempre al passo con i tempi (o anticipandoli anche i tempi) e con la tecnologia, dallo schizzo veloce a matita all’illustrazione realizzata su iPad.
Guardando A bigger splash (1967), una delle opere più note, o Peter getting out of Nick’s Pool, non si può fare a meno di notare che sono tele quadrate e incorniciate con un contorno di colore pieno e tenue, come una vecchia cartolina di auguri, o come una Polaroid o una foto di Instagram .
Per inciso, ma dove sono finite le vecchie cornici di Instagram???
Che poi cos’è (meglio dire cos’era…) Instagram se non l’evoluzione dell’istantanea Polaroid?
“Pictures influence pictures…”
Infatti dopo alcune sale di meravigliosi ritratti di coppie e scene di vita californiana ecco l’immagine frammentarsi in collage di centinaia di Polaroid come in Gregory Swimming (1982) in cui la piscina di cui sopra si scompone per ricomporsi in 130 tasselli blu.
Procedendo ancora le tele stesse si scorporano dividendo l’immagine in rettangoli uguali che accostati ci restituiscono paesaggi del Colorado o altri scenari naturali in cui vediamo finalmente l’affacciarsi delle stagioni rappresentate dapprima in grandi tele composte da più canvas e poi in ipnotici video delle The Four Seasons. Un altro mezzo di rappresentazione tecnologico abbracciato con entusiasmo dall’artista.
“L’arte deve capire la tecnologia, farla propria. La tecnologia ha sempre cambiato il senso delle immagini e le immagini sono il potere. Se l’arte fa a meno delle immagini, perde ogni possibilità di potere…”
Detto da un’ottantenne ci mette voglia di riflettere sul serio dell’uso che facciamo delle immagini, del modo in cui le comunichiamo e del modo in cui le interpretiamo e ne fruiamo ogni giorno. Proviamo a percorrere una mostra senza creare una storia su Instagram stories impegnandoci a fare una scritta decente con il dito sullo schermo… Anche perché nell’ultima sala verremo umiliati di brutto da svariati iPad giganti attraverso i quali si può assistere alle recenti opere di Hockney che, abilissimo disegnatore dal principio, si avvale del mezzo tecnologico per creare dipinti digitali.
Da non riuscire a smettere di guardarli.
Per capirne di più consiglio la lettura di A History of Pictures: From the Cave to the Computer . Una conversazione illustrata sul tema dell’iconografia tra lo stesso Hockney e il critico Martin Gayford.
Tornando al principio, presto la mostra si trasferirà a Parigi, dove nuovi muri (quelli del Centre Pompidou) e nuovi visitatori aspettano le opere di David Hockney, uno dei più importanti artisti contemporanei viventi.
Ci vediamo a Parigi!