PHANTOM THREAD

Di calzini magenta e della complessità di alcuni amori

Per alcuni un film è l’inizio di un successo, per altri un punto di arrivo della carriera e per altri ancora rappresenta la maturità artistica.

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Sto parlando di Phantom Thread che ha visto Daniel Day-Lewis nel suo ultimo ruolo (a distanza di parecchi anni dall’ultimo film, Lincoln), Vicky Krieps nel suo primo ruolo importante in un grande film d’autore ed infine il regista Paul Thomas Anderson, già consacrato per pellicole come Magnolia, Il Petroliere e The Master, che si mette alla prova con una pellicola quanto mai complessa e delicata incentrata sulla figura di un “dressmaker” inglese, interpretato appunto da Day-Lewis.

Per molti Daniel Day-Lewis è, e sarà sempre, l’Ultimo dei Mohicani, anche per me forse che a 10 anni ammiravo il suo fascino selvaggio, ma a distanza di 25 anni sceglie un personaggio opposto, raffinato, snob e quasi negativo, per chiudere la sua brillante carriera: il couturier Reynolds Woodcock, sarto/stilista dell’alta borghesia e nobiltà nella Londra del dopoguerra. 

Woodcock gestisce la sua impresa di sartoria nella sua villa finemente decorata (le carte da parati e i servizi da thè valgono da sole la visione del film) circondato da un harem di donne, sarte, modelliste, dalla fedele sorella Cyril e dalle sue muse, che sceglie e di cui si stufa molto presto… Fino all’arrivo di Alma (Vicky Krieps), donna forte e sfrontata che trova il modo di superare le barriere e l’ostilità di Woodcock in un modo tanto rischioso ed estremo quanto vincente.

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Anderson si cimenta in una storia d’amore appena delineata per quasi 80 minuti, descrivendo solo gesti, sguardi, colazioni, soffermandosi sui dettagli, sulla fattura dei tessuti della sartoria, sui colori, sull’eleganza e sulla sua ricerca spasmodica, come se lo spettatore potesse sentire gli odori, passare la mano sugli abiti, assaporare il burro sul pane tostato, entrare nella testa e nel mondo di un uomo che vive cercando la perfezione delle proporzioni, l’equilibrio maniacale che finisce però inevitabilmente per abbandonarsi allo squilibrio. E lo squilibrio è rappresentato naturalmente dalla donna, nella perenne lotta tra uomo e donna nel rapporto amoroso, nel sottile confine tra amore e morte (e in questo caso Eros e Thanatos non è nemmeno troppo metaforico!).

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L’estetica e la tensione sottile, che si scioglie praticamente sul finale, sono il mezzo e lo scopo del film che non si propone nessuna morale, perché le storie d’amore vero non sono soggette a morale, ognuna ha il suo funzionamento, e qualcuna  fa il miracolo di conciliare  mondi che senza l’amore sarebbero inconciliabili.

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I romantici saranno contenti, ma ancor di più gli amanti della moda: e non intendo i fan di Gucci, e i fashionisti, ma chi si emoziona per la scelta di un calzino magenta. Protagonista nascosto di questo film è infatti il costumista Mark Bridges, già in team con Paul Thomas Anderson in Boogie Nights e nel Petroliere, che nell’impresa di curare i costumi per un film su un couturier ha vinto l’Oscar!