ACQUISTI COMPULSIVI

Ovvero quando lo stile di vendita conta più della vendita di stile

Un Post al Sole, più che una rubrica, una linea che si colloca tra elucubrazioni mentali e chiacchiere di comari. Ovviamente non ce n’era bisogno ma tant’è.

Un Post al Sole è un luogo non luogo creato da Elena Borghi (scenografa, illustratrice, paper artist, coltivatrice di parole dimenticate e comare) e da Serafina Schittino (psicologa, sessuologa, terapeuta non verbale e comare).

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«Vèstiti a modino che Dio ti guarda».

Una volta lessi queste parole in uno sticker attaccato a un palo della luce, in Toscana e, cosa strana, quelle parole si sono appiccicate anche alla mia sottocorteccia trasformandosi in una maglia stretta di ricordi.

Penso a quando ero bambina e alla scelta che avevo per vestirmi bene e in economia. Ne avevo poca ma più della generazione precedente.

«Dio mio, mi vestivo comunque a modino no? Come dici? Sì, è una considerazione da vecchia la mia».

Cammino veloce mentre parlo con Dio, guardo a terra e immagino montagne di vestiti invenduti diventare colline, poi montagne e infine paesaggio, con un largo fiume di spreco ad attraversarlo.

Alzo lo sguardo ed entro in uno di quei supermarket del vestito cheap a caso.

Neanche mi devo sforzare per trovarne uno. La via in cui sono ne è piena.

Rimango imbambolata, persa tra odore di tessuto appena sballato e quantità di merce senza senso che mi guarda.

Anch’io guardo la merce e penso: “Ho bisogno di te?”.

Esco, chiedendomi se anche gli altri, come me, non hanno bisogno di un cardigan di pessima lana che tra quattro lavaggi butterò, o di un cappotto che non mi terrà caldo o di una gonna con le cuciture inevitabilmente scadenti, tipiche di chi deve farne più possibile, alla velocità della luce, meglio che può, per mangiare qualcosina, anche oggi, senza pensare al domani, che sarà identico.

Vestiti inutili fatti per distrarti da cose più importanti e tenerti al guinzaglio con collari di ossessioni confezionate, questa volta sì, a modino e farti credere che tutto questo ti serva veramente.

Sembra un discorso snob il mio, forse lo è, ma ti chiedo: quando cerchi qualcosa che sei convinto ti serva, sei curioso o ti accontenti di prendere quello che ti propinano fecendoti credere che convenga? Quando la trovi e quella cosa la tieni tra le mani, ti chiedi ulteriormente se veramente ti serve?

Con Serafina, la mia comare psicologa preferita, abbiamo parlato molte volte di questo argomento nelle nostre chiacchiere di cortile, considerando che, se i negozi dovessero aspettare noi, di certo avrebbero già chiuso.

La febbre del Black Friday non ci ha prese e quella dei saldi, unico vero momento di piena per i negozi, non ci salirà neanche di una linea perché sappiamo che quello sconto pazzesco è stato già calcolato nel primo prezzo.

Ci sono brand che confezionano sulla base del venduto. Questo consente alta qualità, cura e poco spreco oltre al fatto che vengono lasciate in pace donne e bambine sfruttate dal mercato del confezionamento di massa.

Oppure, si può scegliere il vintage e far girare la merce che già c’è, da anni.

Molte realtà online si stanno spingendo verso questa direzione con app che favoriscono il riciclo di capi che già esistono, divulgati attraverso i social che, sempre più, hanno perso la loro primaria identità per diventare PostalMarket dello shopping.

Allora lo chiedo a te Serafina,  stiamo disimparando cosa sia la curiosità, la scoperta, l’esclusività?

“Amica cara, il tema che mi proponi è vastissimo e veramente interessante, per quanto la tua ultima domanda sembri più rivolta a un funzionario di Confindustria. Non voglio scadere nel parlare della tanto inflazionata sindrome da acquisto compulsivo e del vuoto cosmico da riempire di chi ne soffre, perché credo che a livello sociale la questione sia invece molto articolata e complessa. In primo luogo il consumo di vestiti è strettamente vincolato a un’esperienza emozionale e in concreto a quella sensoriale, quindi si capisce perché le persone comprano le marche, piuttosto che il prodotto, detto in un altro modo, consumano più le esperienze di marca che il prodotto in sé, da qui la ricerca di un acquisto compulsivo e apparentemente superfluo.

Dico “apparentemente” perché comprare vestiti, implica prendere decisioni rispetto alla propria apparenza che influenza il proprio ruolo sociale e la propria identità, per cui in realtà non c’è nulla di superfluo. Sappiamo che una propria solidità identitaria è difficile da acquisire, difficile scegliere e complesso autodefinirsi, per cui meglio farlo attraverso la moda.

In secondo luogo per quanto io creda che indossare un vestito di sartoria possa dare più sicurezza in un colloquio di lavoro rispetto a uno, pur in apparenza identico, di moda low cost, è evidente che ormai lo scopo e gli effetti dell’utilizzo di un vestito non sono più prioritari, ma ha più importanza l’esperienza dell’acquisto in se stessa, come sperimentazione del mondo, anche attraverso i cinque sensi. Con questo voglio dire che chi acquista è alla ricerca dell’esperienza di colori, figure, forme e suoni, più che dell’oggetto in se stesso. Se ci pensi in altre parole importa più lo stile della vendita più che la vendita dello stile e quindi della qualità, della garanzia delle origini, della bellezza del manufatto. Quindi alla tua prima domanda rispondo che viviamo la curiosità, la scoperta e l’esclusività in un modo diverso, cioè più nel come ci sentiamo nel qui e ora dell’acquisto che quindi diventa sempre più fugace, frequente ed effimero (se lo compari con la durevolezza, la qualità, la funzionalità dei consumi dei tempi passati).”

L’artigianato la nuova generazione lo scoprirà mai?

“Quando la sartoria offrirà un’esperienza sensoriale forte, intensa, sonora e anche condivisa socialmente incontrerà forse anche le nuove generazioni”.

Tutto ciò che esiste è energia sacra che possiamo percepire ed intuire. Possiamo assorbire l’energia che si irradia, in particolare dalla bellezza. Quindi circondiamoci di bellezza, il più possibile, che Dio ci guarda.

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